Aveva vissuto esattamente sedicimilanovantotto giorni, cioè la bellezza di cinquecentoventinove mesi, per un discreto totale di quarantaquattro anni e ieri sera, prima di andare a letto, proprio un attimo dopo essersi lavato i denti, gli successe una cosa strana. Per un attimo, ma solo per un attimo, si guardò allo specchio e non si riconobbe.
Fu davvero un istante, meno di un nanosecondo confrontato con i suoi sedicimilanovantotto giorni, ma non per questo breve.
Non ebbe paura, né sentì il bisogno di rifletterci sopra granché. Da un certo punto di vista fu illuminante, confermò ciò che da qualche tempo sospettava, forse proprio da sedicimilanovantotto giorni.
Sospettava di essere cattivo.
Intendiamoci, non che Paolo se ne andasse in giro a picchiare i bambini o molestare le vecchiette, non quel genere di cattiveria, d'altra parte era uno stimato professionista. Si trattava di una cattiveria più intellettuale, un po' più fine forse, ma non meno pericolosa. Ma questo lo stava capendo soltanto allora.
Forse il fatto che il suo migliore amico stesse morendo contribuì in qualche modo, anche se a dire la verità tutti stavamo morendo.
Solo che a lui avevano persino detto quando.



NIENT’ALTRO CHE UN MAZZO DI CARTE
(un estratto)

CAPITOLO UNO

Aveva vissuto esattamente sedicimilanovantotto giorni, cioè la bellezza di cinquecentoventinove mesi, per un discreto totale di quarantaquattro anni e ieri sera, prima di andare a letto, proprio un attimo dopo essersi lavato i denti, gli successe una cosa strana. Per un attimo, ma solo per un attimo, si guardò allo specchio e non si riconobbe.

Fu davvero un istante, meno di un nano secondo confrontato con i suoi sedicimilanovantotto giorni, ma non per questo breve.

Non ebbe paura, né sentì il bisogno di rifletterci sopra granché. Da un certo punto di vista fu illuminante, confermò ciò che da qualche tempo sospettava, forse proprio da sedicimilanovantotto giorni.

Sospettava di essere cattivo.

Intendiamoci, non che Paolo se ne andasse in giro a picchiare i bambini o molestare le vecchiette, non quel genere di cattiveria, d’altra parte era uno stimato professionista. Si trattava di una cattiveria più intellettuale la sua, un po’ più fine, forse, ma non meno pericolosa. Ma questo lo stava capendo soltanto adesso.

Forse il fatto che il suo migliore amico stesse morendo contribuì in qualche modo, anche se a dire la verità tutti stavamo morendo.

Solo che a lui avevano persino detto quando.

CAPITOLO DUE


Chiara, sua moglie, quella mattina doveva alzarsi presto. A dir la verità non era davvero sua moglie, era la sua compagna, ma questo contava poco. Anche Matteo, a dir la verità, non era suo figlio, ma anche questo, alla fine, non era poi così importante.

«Dormi, non ha senso che ti alzi anche tu così presto, sei in ferie» Chiara spense la sveglia.

«Ci mancherebbe» rispose tirandosi a sedere sul letto, «starete via tutta la settimana voglio salutarvi come si deve. Poi devo preparare la colazione al piccolo.»

«Non te lo vorrei dire» commentò lei con un sorriso, stropicciandosi via il sonno dagli occhi, «ma il piccolo ha quasi tredici anni.»

«Già» sorrise, «lui cresce in fretta e noi invecchiamo. Le proporzioni rimangono invariate.»

«Questo ragionamento non mi piace, ma non hai tutti i torti» lo baciò prima di andare in bagno.

Paolo si sdraiò di nuovo cercando calore nel suo lato. Dalla porta socchiusa la intravide sfilarsi la camicia da notte e infilarsi infreddolita sotto la doccia bollente. Non gli capitava tutti i giorni di poterla ammirare così, di solito la sua sveglia tagliava il traguardo un paio d’ore prima di quella della sua compagna, ma quando ci riusciva, ogni volta, non poteva fare a meno di pensare come diavolo avesse potuto fare, il suo ex marito, a farsi scappare una donna del genere. Anche se quella mattina quel pensiero lo intristì un poco.

«Cosa farai tutta la settimana da solo?» chiese lei da sotto la doccia.

Il vapore acqueo aveva già saturato il bagno e dalla porta socchiusa sembrava uscire del fumo, tanto che in un attimo Paolo non riuscì nemmeno più a intravederne le forme dentro al box doccia.

«Fumerò qualche spinello, mi rilasserò» mentì. «Sai, dopo tutti questi anni…»

«Dieci» urlò lei di rimando, «non aver paura a dirlo.»

«Dopo dieci anni ancora non ho capito una cosa.»

«Cosa?!» domandò interessata.

«Come diavolo fai a non ustionarti?»

«Ma vai, va… e io che credevo volessi dirmi qualcosa di serio. Piuttosto, davvero non ti spiace che parta?»

«Ma stai scherzando, hai concluso un anno fenomenale e il grande capo in persona, come al solito, ti reclama assieme a tutti i tuoi protetti per una settimana di sesso, droga e rock’n’roll.»

«Parla piano» disse quando uscì dalla doccia in una nuvola di vapore come in un concerto anni settanta, «quando spari queste cavolate. Il grande capo ascolta solo musica classica, e lo sai» rise.

«Allora vuoi proprio stuzzicarmi?» le afferrò il polso tirandola a letto ancora bagnata.

«Certo che voglio, per chi mi hai preso?» concluse lei mordendosi le labbra.

I suoi seni erano sodi come zaffiri.

Dieci anni, erano passati la bellezza di dieci anni da quando si erano incontrati, ben tremilaseicentocinquantatré giorni, e ancora facevano l’amore come se si fossero appena conosciuti.

Di questo Paolo non avrebbe mai finito di stupirsi.

«Perché non vieni anche tu? sei in ferie e Matteo va in settimana bianca, poteva essere un’occasione per tornare ad Amsterdam insieme dopo tutto questo tempo.»

«No, non è una buona idea, e lo sai. Sarai al cospetto del grande capo e dei tuoi protetti quasi ventiquattrore al giorno, berrai champagne e annuserai le migliori droghe» disse sottovoce, «assieme a quella massa di artisti, egocentrici, talentuosi, incapaci, onanisti, umanisti, liquefazionisti, arrivisti, pressapochisti e così via. Mi annoierei a morte e finirei per tuffarmi nell’alcol, al secondo giorno assomiglierei a uno di quei pittori, graffitari, pop-artisti, illusionisti che rappresenti. No, quello non è il mio ambiente, un matematico stonerebbe come un quattro nella sequenza di Fibonacci. Lederei alla tua immagine persino, ne abbiamo già parlato.»

«Sì, e ogni volta non riesco a capire da dove possa esserti uscita questa teoria.»

«Pensaci, sei la regina dei mercanti d’arte, hai scoperto e lanciato Giordano, rivalutato Sciutti, sei riuscita a strappare Parella alla concorrenza e rappresenti tutti i più grandi artisti del momento, anche se di artistico secondo me alcuni di loro hanno ben poco. Nel tuo lavoro sei uno squalo, lo sanno tutti nell’ambiente, ed è così che devono continuare a vederti: bellissima, irraggiungibile, determinata, fottutamente sicura di te e… sola. Al tuo fianco sarei la pennellata di troppo che distrugge il capolavoro. Quella gente crede che tu abbia una sola missione nella vita: portare la loro l’arte nel mondo, rappresentarli, venderli, fargli guadagnare cifre stratosferiche, ma non solo, non basta che tu li renda vergognosamente ricchi; loro si affidano a te per diventare immortali. Non puoi arrivare lì e sbattergli in faccia che hai una famiglia, un figlio, un marito addirittura. Non puoi permettergli di ammirare la tua vita. Per loro non ne dovresti nemmeno avere una. Sono loro la tua famiglia, è questo che pensano e che devono continuare a pensare. Specialmente adesso che il grande capo vorrà farti una proposta.»

«Sei davvero convinto che mi voglia in società?»

«Certo, a meno che non sia un perfetto imbecille. I tuoi artisti ti adorano e hai fatturato cifre astronomiche quest’anno. Se decidessi di metterti in proprio lui ci perderebbe un mare di soldi.»

«Ma se non riusciamo nemmeno a spendere tutto quello che guadagniamo.»

«Ehi, questo vedi di non fartelo scappare.»

«Non mi capirebbero, eh?»

«Non credo, no.»

Paolo non accennò una parola sulla malattia del suo migliore amico, non c’era motivo perché lei lo venisse a sapere proprio in quel momento. Erano molto affezionati l’un l’altra, ma proprio per questo il dolore poteva aspettare. Senza contare che aveva persino promesso di non farlo.

Non ancora perlomeno.

Matteo doveva essersi già svegliato, lo sentirono trascinare il trolley verso l’ingresso, al piano inferiore.

«Datevi una mossa, e in fretta che il mondo sta per finire» urlò dalle scale citando uno dei suoi autori preferiti, «non voglio fare tardi come al solito.»

Certo che no, pensarono. Era da una settimana che non stava nella pelle: non vedeva l’ora di liberarsi di loro per un po’ e assaggiare finalmente un minimo di libertà.

«Ciao Pa’» lo salutò quando si affacciò in cucina.

Dopo tutti quegli anni Paolo non aveva ancora capito se gli si rivolgeva abbreviando il nome o se lo considerava davvero suo padre. Non glielo aveva mai chiesto. Lo interpretava in maniera differente a seconda dei momenti.

«Ciao campione, cosa gradisci per colazione?» chiese retorico.

«Il solito» si sedette sul suo sgabello.

«Il principino non gradirebbe variare una volta tanto con un’omelette, per esempio, o con una bistecca di brontosauro?»

«I brontosauri si sono estinti milioni di anni fa, massacrati dai Krikkitesi.»

«Sì, ma noi abbiamo un congelatore molto capiente.»

Matteo scosse la testa sorridendo.

«Vada per il latte allora.»

«E i corn flakes al cioccolato.»

«Ma come, non hai guardato il telegiornale ieri? Anche i corn flakes al cioccolato si sono estinti.»

«Non si possono estinguere i corn flakes.»

«Sì, ma possono finire.»

«Mi dici le stesse cose tutte le mattine, sai che potrei denunciarti per molestie e farti rinchiudere nelle prigioni di Betelgeuse.»

Era vero, a colazione Paolo recitava sempre lo stesso copione, e Matteo gli rispondeva sempre per le rime. Doveva studiarsi le battute la sera prima di andare a letto. O era un fottuto genio o Chiara lo imbeccava rimboccandogli le coperte. A volte gli faceva un po’ male sapere di non essere direttamente responsabile di tanta dialettica maestria, ma lo aiutava a tenersi distaccato, sebbene non fosse sempre così semplice con un ragazzino della sua età. Per un attimo, qualche anno prima, pensarono alla possibilità di avere un figlio, ma Paolo lasciò cadere la cosa. Aveva già superato i quaranta e non si sentiva a suo agio con l’idea di poter allevare un badante.

Dopo colazione Paolo aiutò Matteo a caricare valigia e sci in macchina poi, attento a non farsi vedere dalla compagna che aveva già ampiamente provveduto, gli fece scivolare un biglietto da duecento euro in mano.

«Caspita Pa’, una banana?»

«Sì, ma per le emergenze, non mangiartela tutta subito.» Matteo sorrise.

«Sei sicura di volerlo accompagnare tu? Posso vestirmi in cinque minuti» chiese.

«Non ce n’è bisogno, amore» disse Chiara baciandolo su una guancia con in mano una delle sue due pesantissime Louis Vuitton da viaggio, «devo portarlo davanti a scuola ed è sulla strada per l’aeroporto, poi lì dovrebbe esserci suo padre a salutarlo. Tranquillo, tu sei in festa, goditela, ozia un po’ in pigiama, goditi la privacy e studia un modo per impegnarti tutto questo tempo libero. Vedi qualche amico, che so, riallaccia qualche contatto. Divertiti insomma e… dammi una mano» concluse passandogli una borsa pesante come il piombo.

«Caspita, ma ti sei portata tutto il guardaroba?»

«Solo la roba invernale» sorrise.

Poi, dopo qualche minuto, si salutarono.

Paolo le raccomandò di preservare quella tenerezza che solo lui aveva la fortuna di conoscere per il ritorno, o di lasciarla direttamente a casa. In mezzo a quegli squali non le sarebbe certo servita. Chiara sorrise, dandogliene un ultimo sfoggio, dimenticandosi come sempre di dirgli che il suo capo non era il mostro che cercava di apparire in pubblico, poi salì in macchina e mise in moto. Sicura al volante più di un uomo.

Paolo seguì la Volvo percorrere il lungo viale alberato di fronte a casa – mentre Matteo, contento, agitava una mano dal finestrino – poi rientrò pensando alle parole della sua compagna: riallacciare qualche contatto. Era più semplice a dirsi che a farsi. Il suo migliore amico stava morendo, e dopo non ci sarebbe stato molto da riallacciare.


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