
Un ragazzo si sveglia nella propria macchina e vomita strane pastiglie rosse. Non ricorda nulla di ciò che gli è accaduto e neppure la propria identità. Vaga a caso per la città, cercando di sfuggire al disagio che lo attanaglia, mentre frammenti di situazioni vissute si presentano ogni tanto alla sua memoria. Mettendo assieme i vari flashback di cui pian piano si riappropria riesce a delineare un poco la propria personalità e il proprio carattere.
Ma qualcosa stenta a venire a galla...
Un labirinto apparentemente senza uscita, un viaggio allucinante all'interno della propria psiche...
PRESE DI COSCIENZA
(un estratto)
CAPITOLO UNO
Sono sveglio.
Non ricordo dove mi trovo e non so chi sono. Ho gli occhi appiccicosi e il rumore del traffico nelle orecchie. Mi porto una mano al viso e realizzo: sono in macchina e c’è vomito dappertutto. Spaventato cerco di mettere a fuoco. La mia auto è posteggiata malamente in una via principale, con due ruote sul marciapiede, nella corsia sbagliata. Gli autobus mi puntano e gli autisti mi guardano di traverso. Un senso di nausea mi scuote, ma non ho il tempo di aprire la portiera. Vomito sul sedile già sporco. C’è qualcosa di strano nel mio riversamento. Mi faccio forza e allungo una mano per capire: pillole rosse accompagnano quelli che devono essere gli avanzi di una cena. Cosa diavolo posso aver combinato?
Sono a pezzi, non ho neanche le forze per mettere in moto. Andrei volentieri a casa, se solo ricordassi dove abito, ma non posso guidare in queste condizioni. Cerco di fare mente locale tra gli improperi degli automobilisti, ma non riesco a ricordare nulla.
Guardo l’ora. Non mi stupisce vedere che sono le sette del mattino quanto il fatto di ritrovarmi un Rolex al polso. Non ricordo di possedere un orologio del genere e, dato il mio abbigliamento, non ne sembro nemmeno il tipo. Devo andarmene, gli scarafaggi arriveranno a breve e se mi trovassero in queste condizioni passerei sicuramente un guaio. Mi trascino fuori dall’auto. Meglio farsela rimuovere che perdere la patente, penso.
La gente alla fermata del bus sembra far finta di niente, nessuno mi degna di uno sguardo o mi chiede se ho bisogno di aiuto. La cosa non mi stupisce. Barcollo sul marciapiede cercando di allontanarmi il più possibile, non chiudo nemmeno la portiera né prendo le chiavi tanto sono messo male. Il mio unico pensiero è filare, filare al più presto per cercare di capire cosa possa essermi capitato.
Mi trascino per il centro storico, devo avere un aspetto terribile, ma non me ne preoccupo. In piazza i bar sono ancora chiusi, ma mi siedo comunque in un dehors. Un altro conato mi scuote. Sbocco in un vaso di fiori, altre pillole rosse in mezzo a quello che sembra un residuo di ravioli al ragù e di colpo un flash: realizzo di essere vegetariano, non capisco il ragù. Cosa mi sta succedendo?
Ho freddo e i vestiti bagnati, per fortuna il sole sta per sorgere. Ritorno col pensiero alla mia auto abbandonata sul marciapiede, mentre un flashback mi appare: la mia firma su un assegno e un prestito di mia madre per arrivare alla quota necessaria. Sono nell’ufficio del concessionario contento del mio nuovo acquisto. Solo questa immagine si fa strada tra le pieghe della mia mente, ricordo l’assegno, ma non il viso di mia madre.
Allungo le gambe su una seggiola incatenata alle altre, chi mai potrebbe portarsele via, penso, e un altro flash mi si stampa sulla corteccia cerebrale: una notte, assieme a un amico ne stiamo rubando una da un bar della riviera, potrebbe far comodo a un nostro conoscente che sta mettendo su casa, ma una vecchietta ci sorprende e ci copre d’improperi.
Sono spaventato, ma più che altro è il malessere che mi preoccupa. Devo avere in corpo un sacco di robaccia. Cerco nelle tasche i documenti per chiarirmi un po’ le idee, ma non trovo nessun portafogli, solo un pezzo di fumo che potrebbe pesare un etto. Sobbalzo e controllo che nessuno dei passanti mi stia guardando. Che diavolo ci faccio con così tanta roba in tasca, sono forse un pusher? A questo punto tutte le teorie sono buone, per quello che ne so potrei anche essere un serial killer.
Intorno i negozi iniziano ad aprire, ma nessuno comunque sembra occuparsi di me. Penso che dovrei recuperare un po’ di energia e tornare alla macchina per vedere se i miei documenti fossero rimasti lì, ma la paura di essere fermato mi dissuade, con la droga in tasca e in queste condizioni è meglio farsi invisibile. Potrei nascondere l’hashish, o gettarlo, potrebbe significare solo guai, ma non me la sento. Qualcosa mi impedisce di privarmene. La testa mi gira e darei qualsiasi cosa per stare un po’ meglio, forse stanotte sono andato giù pesante con paste e alcool, questo spiegherebbe il malessere e le pillole rosse; certo che per buttarne giù così tante dovevo proprio essere fuori di me. Magari ho semplicemente tentato il suicidio, ma in questo momento mi sento così attaccato alla vita che non riesco ad avvalorare una tesi del genere. Forse sono pazzo, o magari morto, ma in questo caso non si spiegherebbe il dolore che mi attanaglia.
Mi riscaldo al sole, poi decido di concedermi un vetro. Se fossero i postumi di una nottata di alcool quelli che mi torturano, un colpo dovrebbe calmarmi un po’ il mal di testa. Entro in un bar e ordino una pinta. Il barista mi serve con noncuranza, anche lui sembra non accorgersi del mio stato. Solo dopo il primo sorso mi rendo conto che se non ho il portafogli non ho nemmeno soldi con cui pagare la birra. Sono imbarazzato e mi stupisco. Non mi crea nessun problema la mia immagine in queste condizioni, mentre ora che devo semplicemente lasciare pochi spiccioli di debito mi sento a disagio. Cerco d’intavolare una conversazione col barista per spiegargli la situazione, ma le parole non sembrano volermi supportare. Finisco il vetro e automaticamente porto una mano alla tasca dei pantaloni bagnati afferrando qualcosa. Metto a fuoco: un rotolo di banconote ripiegate su se stesse in perfetto stile mafioso, i biglietti grossi all’esterno e mano a mano i pezzi più piccoli; cinque biglietti da cinquecento e un sacco di banconote di piccolo taglio. In mano ho più di tremila euro: una bella somma con cui girare.
La birra non mi ha fatto né bene né male, quindi ordino un altro colpo, con tutto quel ben di dio tra le mani potrei starmene al banco per un mese. Vuoto quattro vetri prima di decidermi, poi prendo la porta. Non ho idea di che mese sia, ma da come sto sudando azzarderei luglio o agosto, se non fosse per i passanti che indossano giacche a vento sopra maglioni di lana, mentre io solo una lurida maglietta a maniche corte. Inizio a preoccuparmi seriamente, in corpo devo avere qualche sostanza micidiale. Se solo riuscissi a ricordare qualcosa della serata potrei prendere le debite precauzioni.
Vago a caso per i vicoli cercando un po’ d’ombra. Accanto a un portone noto l’insegna di un medico generico, sono quasi tentato di farmi strada nel suo studio in cerca di aiuto, ma la categoria non deve aver mai riscosso la mia simpatia, quindi tiro avanti. Mano a mano che cammino le vetrine sfumano ai lati del mio campo visivo, i commessi sembrano tanti pesci rossi che guardano la vita senza parteciparvi, rinchiusi nei loro acquari.
A poco a poco il disagio sembra migliorare: la testa mi duole sempre, ma il dolore generale che mi ha accompagnato dal risveglio comincia a scemare, forse gli effetti di tutta la robaccia che devo essermi fatto iniziano a perdere d’intensità.
Nei pressi dell’università mi imbatto in una folla di ragazzini agghindati da alternativi. Dev’essere un giorno feriale, penso, e magari in qualche acquario qualcuno mi starà aspettando.
Non ho voglia di percorrere tutta la salita, il caldo mi taglia le gambe. Svolto al primo vicolo e mi ritrovo in un quartiere nascosto dalle strade di maggior affluenza, con un bel po’ di verde intorno, un parco e prati all’inglese. Dovrei stupirmi, ma mano a mano che guadagno terreno nel verde sento che il disagio diminuisce. Cammino parecchio sull’erba, il parco è grande e quando mi volto verso l’ingresso i palazzi sono sfumati all’orizzonte.
Sto meglio, non mi interessa più sapere chi sono o cosa devo aver combinato. Mi rilasso ascoltando il cinguettio degli uccelli e mi sdraio sull’erba ancora fresca di rugiada. Ho smesso persino di sudare, il sole adesso mi scalda teneramente.
Mi lascio andare e nel dormiveglia intravedo sentieri di montagna in paesaggi mozzafiato: ho uno zaino verde, pesante, e arranco dietro a quello che capisco essere un mio amico. Ha qualche anno più di me, più basso, con gambe robuste. Porta un paio di pantaloncini corti e da come affronta il sentiero sembra nato in montagna. Saltella qua e là senza sforzo, spesso abbandona il tracciato per andare ad abbracciare gli alberi ritti vicino agli strapiombi o per accarezzarne le foglie. Si stupisce che a me sembrino tutti uguali. Mi urla i loro nomi e mi interroga, poi cazzeggiamo parlando in dialetto, lui ne è capace, io sbaglio la pronuncia. Ci divertiamo e interagiamo rispettando gli spazi. Tutti e due non abbiamo piacere a trovarci in mezzo a costrizioni e a volte anche un amico può esserlo, con lui so che non è mai capitato, sento che a volte si preoccupa un po’ e cerca di farmi stare a mio agio, ma già lo sono. Finito il sentiero arriviamo in un rifugio, decidiamo di stappare una bottiglia per brindare alla natura e all’amicizia.
Vedo tutto questo nella televisione del mio dormiveglia, poi la scena cambia.
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