
La Terra è diventata un luogo invivibile e cinque giovani amici, nati e vissuti in un’asettica città sotterranea, progettano da tempo un viaggio che li condurrà su Mitote: un pianeta su cui è stato ricreato un ecosistema simile a quello della Terra prima dei capovolgimenti climatici, dove potrebbero finalmente apprezzare la bellezza di ciò di cui hanno solo sentito parlare, come svegliarsi al mattino e poter vedere il cielo, il sole, le nuvole. Ma arrivare su Mitote non è affatto semplice e il viaggio è soprattutto introspettivo, non solo fisico. Perché la realtà si rivela presto essere molto più complessa di ciò che si aspettavano.
Alla stregua di un beatnik del futuro, Patrizio, alla sua prima esperienza editoriale, esorcizza le crisi, i dubbi e le ansie della propria generazione attraverso il viaggio, l’introspezione e l’ironia.
MITOTE
(un estratto)
Fermati un attimo e siediti. Devo raccontarti una storia, una storia cominciata molto tempo fa, in un luogo dove la vita si svolgeva sottoterra e le alienazioni si coltivavano come gerani. Tempi bui, in cui la scintilla alla base della vita non produceva più nessun calore. Tempi avari di emozioni e sentimenti, tempi in cui cinque amici, giovani e incoscienti, camminavano fianco a fianco al disagio. Tempi in cui l’alcool scorreva come fiume in piena dove questi nuotavano senza meta. Tempi in cui la saggezza non era che un astrattismo fine a se stesso e la storia studiata a scuola non combaciava con i racconti degli anziani.
Avrai già sentito decine di racconti sull’argomento, ma questo è il racconto, e questo è il momento giusto. Porta pazienza dunque e rilassati, non ti ruberò più di qualche ora e cosa vuoi che sia adesso che il tempo è nostro alleato. Il linguaggio non sarà dei migliori, ma andrà maturando con lo svolgersi del racconto, proprio come successe ai protagonisti. Verso la fine potresti quasi trovarlo accettabile. Verso la fine capirai perché questo è il momento giusto, capirai perché nulla non debba mai essere affidato al caso, anche se son sicuro che tu questo l’abbia capito, molto… molto prima di me.
Sbrighiamoci dunque perché non possiedo che una scatola di tabacco e senza berne il fumo il racconto potrebbe risultarne confuso. Non lasciarti ingannare se le mie pause dovessero farti credere che sia volato tra le braccia di Morfeo, ciò non accadrà. Terrò gli occhi chiusi, è vero, ma solo perché mi è difficile tornare su vecchi sentieri persi nella memoria. Non voglio che il presente contamini in qualche modo i posti in cui sto andando.
PRIMA PARTE
Passeggiavamo per i giardini pensili del terzo livello. A causa di una vecchia questione di ozono e ai relativi capovolgimenti climatici la vita si svolgeva completamente sottoterra. Non che questo fosse un problema, sottoterra ci eravamo nati, ma i nostri occhi, alla luce artificiale, non brillavano affatto. Il mondo era arrivato al limite, la soglia del non ritorno era lontana, oltre l'orizzonte alle nostre spalle. Mai l'uomo, durante le varie epoche, si era spinto così lontano. Tutto il pianeta trasudava una sensazione di fragilità, di stanca indifferenza e distacco. Tutto il pianeta incuteva timore, con le sue insegne colorate, i cunicoli e i pavimenti di plexiglas, con i suoi condizionatori, le fibre ottiche, l’aria stantia di disinfettante e i distributori automatici di cibo cinese. Tutto dava l’impressione di poter esplodere da un momento all’altro. Eravamo al limite.
«Ehilà anche voi in Mesopotamia?» chiese Antonio puntuale all’appuntamento.
«Vai a quel paese Anto» rispose Fede, «hai trovato piuttosto la password per quel cavolo di frullatore?»
«Già» continuai, «dobbiamo riuscire a rubare i biglietti entro dopodomani se vogliamo arrivare su Mitote nei tempi stabiliti.»
Negli ultimi quarant’anni eravamo riusciti a riprodurre l’atmosfera terrestre su vari pianeti e ognuno aveva le sue peculiarità: Marte era diventato, grazie al clima e alla sua fertilità, un’enorme serra che forniva alla Terra ogni sorta di vegetale. Nucleo Uno, sempre ricoperto di neve, era la meta più ambita dai master, la cosiddetta classe dirigente, gli unici capaci di affrontare due giorni di viaggio interplanetario per uno di sci. Black Ring, il più vicino alla Terra – tre ore di taxi shuttle – era la capitale del divertimento: discoteche, birrerie, parchi giochi e un clima tropicale tutto l’anno, ma non solo. Sui pianeti artificiali non bisognava vivere né sottoterra né con tute atermiche visto che le temperature erano nella norma e l’atmosfera ricreata su misura per l’uomo. Chi vi si era recato sosteneva che non vi era niente sulla Terra paragonabile alla sensazione prodotta nei polmoni dall’aria fresca non trattata. Naturalmente erano pochi quelli che potevano permettersi viaggi del genere e i racconti sull’argomento assumevano caratteristiche leggendarie. Tra tutti i pianeti artificiali Mitote era il più misterioso.
«Ehi Fede» chiese Danilo, «perché proprio Mitote con la fama che ha?»
«Mitote è un esperimento governativo di clonazione terrestre interrotto nel 2022. Dicono che sia tale e quale alla Terra millecinquecento anni fa: niente cemento, niente case né strade, solo aria, vegetazione, animali e montagne. Soltanto natura insomma.»
«Sì» continuò Roby, «si dice anche che da sei anni nessuno voglia più sbarcare lì, vi ricordate gli ultimi che ci passarono venti giorni? Quando tornarono erano fuori di testa… Deliravano su mostri che divoravano i pensieri e facevano discorsi assurdi sulle immagini da eliminare.»
«È vero» concluse Antonio, «atterrarono su Mitote per un guasto allo shuttle e furono ritrovati dalla corporazione due settimane dopo. Uno di loro sragionò per giorni, parlava di spostare il punto d’unione e di come uccidere l’ego per sopravvivere. Gli altri erano sotto shock, non si capì granché di quello che era successo ma qualche mese dopo Mitote fu dichiarato Off Limits.»
Restammo in silenzio qualche secondo, cercando di capire in cosa ci stessimo imbarcando quando Antonio con aria sorniona annunciò: «La password l’ho trovata, ho già prenotato i biglietti e pagato, per modo di dire s’intende. Cinque biglietti per Frieden, da lì ho noleggiato uno shuttle charter con autista che ci porterà a destinazione per tornare a prenderci sedici giorni dopo. È stato difficile trovare un’agenzia che accettasse il nostro itinerario, sembrano tutte molto superstiziose al riguardo, solo una ha accettato: la Grateful Space Line. Non vi assicuro la serietà.»
«Perfetto ragazzi» continuai, «allora ci vediamo questa sera al Blues House per gli ultimi preparativi e l’annessa ciucca di inizio vacanza, intesi?»
«Certamente, ciao Ale.»
Il Blues House era un birreria del settimo livello. Uno dei pochi posti dove si poteva sentire ancora della musica decente senza venir rimpinzati di video post techno e drink assurdi. Mastro Bla: il proprietario, un folle scatenato con un’enorme cresta bionda, lottava tutti i giorni la tecnocrazia dilagante aiutato da tre splendide fanciulle. Quel posto era la nostra scialuppa di salvataggio, la nostra isola deserta carica di frutta dove naufragavamo a intervalli pressoché regolari. La nostra colonna sonora.
Ero seduto sul fondo del locale, il posto migliore, dove la musica non era che un gradevole sottofondo ai miei pensieri. Stavo ascoltando
You can’t always get what you want, la mia Guinness sintetica teneva compagnia a un vetro vuoto della medesima. Ero lì da quindici minuti e bevevo di gusto, come sempre del resto, ma questa volta avevo una strana sensazione, come se qualcosa dentro di me fosse in procinto di cambiare. Captavo strane energie, qualcosa di molto potente che non sapevo come controllare. Sicuramente l’agitazione per la partenza giocava un ruolo fondamentale, ma sotto c’era dell’altro. Tanto più che non pensai nemmeno a come sarebbe potuta essere la birra vera, cosa che facevo ogni qualvolta mi apprestavo a bere. L’idea di visitare un pianeta come il nostro prima che la cosiddetta civiltà lo rendesse invivibile mi eccitava e mi spaventava allo stesso tempo. Nessuno di noi era mai stato su un monte o su un prato che non fosse simulato sotto il livello del plastico, come chiamavamo la superficie, dove ovviamente non eravamo mai stati a causa dell’altissima temperatura. Praticamente non avevamo mai vissuto. Le generazioni future si sarebbero abituate, non avevo dubbi. Il genere umano è strano, pensavo, sorvola tutto adattandosi alle situazioni più allucinanti, ma noi, in quel momento, non potevamo. Non potevamo proprio. Facevamo parte della generazione di passaggio o almeno questo era quello che credevamo. La generazione più sfortunata, quella rinchiusa tra due fuochi. Da una parte i vecchi pazzi alcolizzati che tutte le sere urlavano e piangevano sulle nostre spalle alla ricerca di un altro bicchiere del fiore dell’oblio, impegnando in cambio le loro esperienze e rimpiangendo d’essere sopravvissuti alla grande siccità, dall’altra i pazzi, quelli veri: l’immensa marea di persone vaganti come automi da un punto all’altro di sterili corridoi colorati, alla ricerca di un qualcosa che certamente non avrebbero trovato sotto terra.
Ci eravamo conosciuti in tempi diversi e avevamo scoperto di avere parecchie cose in comune. Tecnicamente potevamo essere considerati disadattati, ma noi preferivamo ritenerci semplicemente coscienti. Certo eravamo fuori luogo. Non leggevamo supporti retinici, ma vecchi libri quasi introvabili, i nostri miti erano diversi, così come la nostra musica. Nessuno conosceva o almeno sembrava apprezzare più i classici di un tempo. Niente più Hank o Céline, né Snyder o Blake, per citarne alcuni, come se il passato fosse stato cancellato, dissolto dalla perfidia di uno scienziato pazzo dotato di raggio disintegratore, vendicatore di millenni di cartoni animati a lieto fine. Nessuno sembrava più provare il minimo conflitto interiore. Consumavano semplicemente la loro esistenza come enormi funghi apparsi in un batter d’occhio sopra le sabbie mobili. Non avrei dovuto giudicare, di questo ero cosciente, ma la rabbia giocava brutti scherzi, tanto più che non potevo capire perché, sebbene nessuno fosse realmente contento, non s’intravedeva la voglia di cambiare neanche negli occhi dei più giovani.
Federico arrivò per primo, un paio di blue jeans e una maglietta nera. Dalle maniche corte s’intravedevano i tatuaggi, testimoni dell’abilità di Roberto, rimasto forse il solo sul pianeta capace di tatuare con l’ago. Dall’avambraccio sinistro spuntava la coda di un grande drago, dal destro i piedi di una antica divinità tibetana. Era simpatico guardare le facce degli altri avventori che, cercando di non farsi notare, lo guardavano stupiti chiedendosi con che tipo di laser fossero stati concepiti e come mai non si muovessero.
Fede posò la chitarra, spostò la mia e si sedette, non uscivamo mai senza.
«È tanto che aspetti?» chiese guardando i vetri vuoti.
«Una ventina di minuti, sentivo il bisogno di un colpo, ho qualcosa che mi si agita dentro, una sensazione che non riesco a classificare.»
«Già.»
«Volete ancora qualcosa ragazzi?» domandò Valex, una delle tre ragazze che aiutavano Mastro Bla.
«Due Guinness sintetiche» rispose Fede, poi continuò: «sono due anni che lavoriamo a questo viaggio e anche se abbiamo letto quasi tutti i testi sull’argomento non sappiamo a cosa andiamo incontro.»
«Eccome!» urlò con enfasi Antonio che si stava avvicinando birra alla mano, «Passeremo da questo schifoso dominio tecnologico alla natura, quella vera. Sembra impossibile.»
Arrivarono anche Danilo e Roby, si sedettero e ordinarono da bere. Io perso nella schiuma della birra mi arrotolai una sigaretta e l’accesi. Restammo in silenzio qualche secondo, ognuno assorto nei propri pensieri, poi Danilo si rivolse a Antonio: «Sei sicuro di non aver lasciato traccia nel computer dello shuttle-porto? Non vorrei avere sorprese al momento dell’imbarco.»
«Non ti fidi allora?»
«Certo che non mi fido» rispose sorridendo.
«Stai tranquillo, son due anni che ci lavoro. Ho prenotato e pagato i biglietti inserendo dei movimenti di cassa fittizi, in questo modo non se ne accorgeranno prima della prossima verifica fiscale, poi vi ho fatto una sorpresa...»
«Che genere di sorpresa?»
«Sono già passato a ritirare i coupon, quindi rilassati perché non mi stava aspettando nessun piedipiatti.»
«Com’è che sei diventato così coraggioso, non avevi paura di finire in manette?»
«Certo che avevo paura, ma ho pensato che nel caso sarebbe stato meglio essere arrestato da solo, almeno voi mi avreste pagato un buon avvocato.»
«Un ottimo avvocato... d’ufficio.»
«Fanculo.»
Danilo sorrise, bevve un sorso e si accese una sigaretta, Roby nel frattempo si era alzato e aveva seguito la conversazione dal videogioco pochi passi più avanti.
«Vuoi fare un doppio?» chiese Danilo.
«Come cazzo farete senza videogiochi voi due?» chiese Fede scherzando.
«Voi vi portate le chitarre, io e Roby i giochini.»
«Come no» dissi, «e la prolunga?»
Ridemmo, mentre Danilo mi tirò un calcio e una botta di vaffanculo. La serata continuò su questi toni, verso l’una il nostro tavolo pieno di vetri vuoti sembrava un campo di battaglia. Noi cinque generali ubriachi. Delirammo un po’ su quello che avremmo potuto trovare, spaziando da bellissime odalische a mostri terribili e alle due ci lasciammo. Mancavano solo sei ore all’appuntamento.
Mi arrotolai una sigaretta e mi avviai verso casa. Camminai in trance, completamente rapito dai miei pensieri, nulla intorno a me riuscì a attirare la mia attenzione, la mia mente era altrove. Per fortuna il mio corpo conosceva la strada.
Abitavo al 1152 di Maxell street, un tunnel del quarto livello, in un monolocale abbastanza spazioso con un grande materasso a acqua e un disordine sovrano. Cataste di libri e vecchi vinili vegliavano il mio sonno dai lati del letto mentre pile di memorie musicali, rigorosamente copiate, minacciavano la mia incolumità dall’alto dello stereo. Ovunque fazzoletti sporchi, posacenere debordanti e un’immensa quantità di polvere ovunque. Non capivo il perché di tutta quella polvere in un ambiente dove l’aria era rigorosamente filtrata, ma probabilmente non era da attribuirsi all’ambiente, dovevamo essere noi, con tutti i nostri meccanismi fisiologici, a inondare ogni cosa di una patina grigiastra di acari, forfora e pelle morta: testimone di un’inevitabile quanto ovvio decadimento cellulare. Solo le mie chitarre erano disposte in ordine e perfettamente pulite sui loro piedistalli in fondo al letto. Di loro avevo una cura maniacale, non avrei potuto permettermi il contrario visto che non esistevano sul pianeta molti esemplari del genere, ma non era questo il punto, il punto era che non avevo ancora preparato lo zaino, ma non solo, non avevo nemmeno idea di cosa metterci dentro. Mi sedetti sul letto aspirando avidamente il mozzicone di una vecchia bomba, non ero mai stato all’aria aperta e non avevo la più pallida idea di quello che mi sarebbe potuto servire. Il caldo e il freddo, per quelli come noi, si contrastavano con una semplice sequenza sulla tastiera del sistema di climatizzazione, ma nei boschi?!
Contemplai il vuoto per una mezz’ora poi mi ricordai dei Vagabondi del Dharma: il libro che più di tutti alimentò la mia voglia di scappare. Demolii completamente la libreria alla sua ricerca, dopodiché copiai alla lettera le mosse del protagonista. In meno di un'ora tutto era pronto. Dovevo solo anticipare la sveglia di qualche minuto per comprare un paio di scarponi da montagna prima dell’appuntamento.
Conobbi Danilo al decimo livello dove sfogava il suo disagio correndo in macchina. Mi piacque subito il suo modo di fare, era sincero, chiaro e diretto. Alla guida poi, era folle. Viveva il suo delirio in maniera estrema. Una volta preso in mano il volante era come se lui e la sua macchina si fondessero dando luce a un essere nuovo. Danilo era un hacker, un hacker meccanico però. Lui e quelli della sua banda elaboravano ai limiti dell’impossibile ogni sorta di veicolo a motore, dopodiché testavano le loro creazioni a folli velocità per le strade del decimo livello. Era una ribellione come le altre: gli hacker classici si inserivano in mainframe complicatissimi per curiosità e per dimostrare esclusivamente il proprio talento, loro al posto della tastiera usavano il cacciavite. La polizia ovviamente non vedeva di buon occhio il loro operato, ma mai uno sbirro riuscì a catturarne uno. Non avevano macchine abbastanza veloci. Purtroppo Max, il suo miglior amico, ebbe un problema mentre metteva a punto un booster di protossido d’azoto su di una vecchia 911 rubata che voleva regalargli per il suo compleanno e saltò in aria con mezzo isolato. Danilo ne fu così scioccato che smise di correre e si trasferì al quarto livello. Non rivide mai più i suoi vecchi compagni.
Conobbi gli altri un paio d’anni dopo. Fede lavorava in una birreria vicino ai nostri appartamenti e a suon di sbronze diventammo amici. In seguito scoprii che anche lui suonava e era un amante del blues, una vecchia musica nata nelle piantagioni di cotone di un continente ormai scomparso, e da allora suonammo e bevemmo parecchio insieme.
Roby e Antonio erano suoi amici e anche con loro andammo subito d’accordo. Antonio era un hacker, nel senso classico del termine questa volta, uno di quelli in gamba. Aveva persino una taglia sulla sua testa, o meglio: aveva una taglia il possessore del suo nickname visto che su di lui le autorità non sapevano quasi nulla, come noi del resto. Su nessuna rete esistevano file contenenti suoi dati e non sembrava registrato in nessun database. Cercai più volte io stesso di scoprire qualcosa al riguardo, visto che anch’io mi dilettavo con i computer, ma non ci fu nulla da fare, su Antonio non esisteva un solo byte. Non ho mai ben capito come si mantenesse, ovviamente crackava software e hardware, ma dato il suo tenore di vita ai tempi credo che più che altro fosse un sicario informatico, uno di quelli che mandavano in crash i mainframe su ordinazione.
Roby si manteneva disegnando, i suoi dipinti non avevano niente da invidiare ai grandi maestri del passato e su commissione poteva dipingere qualsiasi cosa, dalla perfetta riproduzione di vecchi capolavori a originali deliri, dagli affreschi ai graffiti. Purtroppo erano più richieste le riproduzioni che le tele nate dalla sua visione della realtà, tele un po’ inquietanti effettivamente. Roberto rallegrò con i suoi colori anche i nostri appartamenti. Nel mio disegnò per tutta la grandezza del muro un’enorme colomba bianca appoggiata sul manico di una chitarra, il tutto sullo sfondo di un grande cerchio azzurro. Era l’amaro ricordo di tempi che non avrei mai vissuto.
In questo periodo vi era in me qualcosa che non andava, in ogni momento, e in ogni stato d’animo, avrei sempre voluto essere altrove. Mitote doveva aiutarmi a capire. Dovevo realizzare se il mio problema fosse davvero stato dettato dalla situazione sociale contingente, altrimenti avrei dovuto cercarmi un buon psicologo.
Alle sette del mattino, dopo un’abbondante dose di caffeina, ero già in strada. L’emporio per fortuna non chiudeva mai. Mi feci indicare il reparto da una commessa, acquistai gli scarponi e un’ora dopo incontrai gli altri nella reception dello shuttle-porto. Ero nervoso. Antonio, stranamente temerario invece, si avviò, biglietti alla mano, verso lo sportello. Per fortuna non ci furono problemi, i visti vennero convalidati e fummo condotti al corridoio d’imbarco. La reception si trovava sul lato est del primo livello e per arrivare allo shuttle-porto vero e proprio bisognava viaggiare per una decina di chilometri sul plastico.
Prendemmo posto spaventati e eccitati al tempo stesso, sul pullman non si poteva fumare e le nostre cellule trasudavano l’odore della voglia di nicotina, lo si sentiva nell’aria.
«Non si potrà fumare, però...» disse Roby estraendo una pinta di distillato scozzese.
Ci guardammo e scoppiammo a ridere quasi rilassati. Finimmo il whisky in tempo per la partenza e, visto che era mattino presto, la pinta bastò per metterci tutti di buonumore. Buonumore che per sfortuna sparì al momento dell’uscita sul plastico.
Il cielo di cui avevamo sempre sentito parlare non esisteva. Sopra le nostre teste solo un’immensa e triste cappa grigia. Sembrava che la vecchia signora si fosse tolta il mantello appendendolo al pianeta. L’asfalto fumava lasciando nell’aria un odore atroce, appiccicoso e tremendamente consistente. Mi sentivo sopraffatto da quel fetore, tanto che anche i movimenti mi apparvero più pesanti. L’autista spiegò che il puzzo era il prodotto della fusione di tutto ciò che non resisteva ai cento gradi costanti dell’atmosfera: gomma, carta, plastica, alberi, foreste, animali... Quello era l’atroce odore della morte.
Antonio volle sapere come mai quel miasma si sentisse anche dentro la vettura pressurizzata e vacillò quando l’autista spiegò che sul pullman era in funzione il miglior filtro d’aria attualmente in commercio: «Il fetore là fuori è mille volte più intenso, mi spiace ma la tecnologia per adesso non ha trovato di meglio.»
Quasi vomitammo a pensare cosa doveva essere quell’odore moltiplicato per mille. Che fine aveva fatto il pianeta? Tutto bruciava là fuori, non più un animale, non più una pianta... La Terra non meritava tanto.
Terminato il viaggio in questa desolazione il pullman si fermò nello spazio contrassegnato da righe fosforescenti sull’asfalto fumante, un lungo condotto si avvicinò lentamente allo sportello e vi aderì ermeticamente. Prendemmo i bagagli e ci avviammo verso l’uscita. Il condotto era alto due metri, isolato termicamente e pressurizzato, sebbene non fosse trasparente la luce era intensa, trasportata da una miriade di fibre ottiche. Avanzammo in silenzio, provati dalla precedente visione, e entrammo nello shuttle-porto. Tutta la nostra disperazione mista al puzzo ci trasmise una tristezza mai provata. Avevamo gli occhi lucidi, e in più anche il whisky era finito.
Due hostess alte con corpi snelli e seducenti, in contrapposizione alle facce cattive, ci invitarono a posare i bagagli sul rullo trasportatore che li avrebbe scaricati nella stiva del velivolo. Io e Fede litigammo per riuscire a tenere le nostre chitarre come bagaglio a mano: «Sono troppo ingombranti» ripeteva la prima hostess, «dovete sistemarle nella stiva, non potete portarle nella zona passeggeri.»
«Sono chitarre acustiche» ribatté Fede, «fatte con legni pregiati e introvabili ormai su questo pianeta. Per farla breve se si dovessero rompere nel viaggio dovreste pagare una fortuna per risarcirci, non le metteremo certo su quel rullo fino a che qualcuno non si prenda la piena responsabilità per quello che potrebbe accadere. Per iscritto naturalmente.»
La seconda hostess si rivolse verso di me con aria interrogativa e io, a metà tra l’arroganza e l’ironia, le sostenni lo sguardo senza fiatare. Parlottarono sottovoce, poi finalmente ci consentirono di portare i nostri strumenti nella zona passeggeri a patto di non disturbare nessuno.
In cima alla scaletta, una terza hostess, questa volta dallo sguardo dolce, ci chiese i biglietti e ci accompagnò a sedere chiedendoci se volevamo fare colazione prima di decollare.
«Come no» disse Roby, «portaci cinque whisky per favore.»
«Cazzo Roby» replicò Danilo, «ci dobbiamo proprio spaccare il fegato? Io non voglio fin...» ma non riuscì a terminare la frase.
«Starai due settimane senza bere niente, cosa te ne pare?» chiese Fede.
«Cinque whisky» ordinò Danilo ridendo.
Mi parve di scorgere uno sguardo incredulo sul viso dell’hostess, ma probabilmente fu solo una mia impressione, dopotutto era una professionista.
Mancava mezz’ora al decollo. Finimmo il primo giro in tutta calma e grazie all’alcool dimenticammo quasi la visione precedente. Ordinammo un secondo colpo e cominciammo a parlare animatamente. Eravamo pronti al decollo quando ci accorgemmo che Roby, durante la conversazione, non staccò un attimo la penna dal notes che si portava sempre dietro; disegnando, senza rendersene conto, cinque o sei paesaggi visti dall’alto. Il tratto, sicuro e semplice, e l’assenza di particolari irrilevanti creava una certa analogia con la pittura cinese studiata a scuola.
«Dove hai visto questi posti?» chiese Fede.
«Non ne ho la più pallida idea, sono stupito quanto te. Non possono nemmeno essere frutto della fantasia visto che non sono stato cosciente un attimo di quello che stavo facendo. È come se fossero saltati fuori dalla carta. Da soli…»
«Tienili stretti» disse Anto, «ho l’impressione che non siano saltati fuori a caso.»
«Sarà» continuò Dani, «ma speriamo di decollare altrimenti finisco bello e ubriaco.»
«Bello?!» ripetemmo in coro.
Ridemmo.
Stavo per essere riassorbito dai pensieri quando una forte scossa mi destò: stavano scaldando i reattori. Una voce femminile, rauca ma sensuale, ci diede le istruzioni per prepararci al decollo. Allacciare le cinture di sicurezza non fu un’operazione semplice per cinque ubriachi. Un altro scossone, questa volta più forte, seguì il rumore dei reattori. Sentii un pugno allo stomaco della durata di parecchi secondi. Che strana sensazione, pensai. Nessuno mi aveva mai picchiato prima, non ero mai stato su uno shuttle, non avevo mai volato né tanto meno camminato sul plastico. Ero spossato, non avevo mai provato tante emozioni in così poco tempo. D’altra parte che emozioni si potevano provare nei livelli? Quali emozioni poteva fornirci un luogo in cui si respirava aria trattata chimicamente e i paesaggi fuori dalle finestre non erano che ologrammi? Nei livelli non avremmo mai saputo cosa potesse voler dire aprire un’imposta la mattina presto, quando l’aria pungente ti strappa dagli occhi le ultime briciole di sonno. Nei livelli conoscevamo solo il sonno, profondo e per nulla ristoratore.
Sarà stato vero quello che avevamo letto? Lo speravo, altrimenti il Samsara sarebbe diventato una giostra da baraccone e i nostri idoli degli imbonitori. Di punto in bianco ebbi la risposta. Lo shuttle oltrepassò la cortina di smog e ai nostri occhi si presentò uno spettacolo incredibile. Eravamo circa a quattromila metri, quando all’improvviso un’esplosione di luce ci regalò un cielo azzurro, pulito, con enormi macchie bianche sparse qua e là che sembravano di cotone e si spostavano rapidamente. Un passeggero le chiamò
nuvole. Tornai con la mente ai banchi di scuola e ricordai qualcosa in proposito. Nuvole, che nome strano e fantastico, pensai. Cercai di risalire all’etimologia della parola, ma capii che era impossibile, col mio background, tentare di comprendere millenni di culture precedenti. Benché ci muovessimo velocemente riuscivo tuttavia a notare gli spostamenti di queste enormi masse bianche, quando una di queste, la più grossa, spostandosi di colpo, forse al ricordo di un appuntamento, cedette il posto a un enorme palla gialla. Abbassai gli occhi, era più forte di qualsiasi fascio di fibre ottiche. L’oblò divenne bollente in una frazione di secondo e le mie cellule si riempirono di un calore naturale mai provato. Capii improvvisamente che tutto quello che avevo letto era vero, capii cos’era un satori. Ora erano chiare parecchie cose.
A cosa serviva cercare un’illusione di felicità negli occhi di una ragazza se questi non possedevano nessun splendore alla luce delle fibre? A cosa serviva lavorare una vita, coltivare le proprie alienazioni in una fabbrica, in un ufficio, in un campo da gioco? Curarle addirittura, annaffiarle, concimarle, per arrivare poi al proprio loculo di cento metri quadri in vita e molto, molto più piccolo dopo? Qual era sotto il plastico la differenza, se non la metratura?
Avevo sentore che qualcosa in me sarebbe cambiato, ma non così tanto in così poco tempo. Per un attimo fui sopraffatto dalla paura, poi tornai a guardare il sole.
Nessuno di noi fiatò, non esistevano parole. Tutto pareva irreale.
Era giusto cercare noi stessi, perché era questo lo scopo del viaggio, così lontano da dove eravamo nati o voleva dire tradire a nostra stessa natura? Pensandoci bene stavamo volando incontro a un’enorme lunapark: una grande riproduzione di quello che avevamo distrutto, bellissima senza dubbio, ma pur sempre una riproduzione. Due anni di preparativi, emozioni, discorsi, progetti e paure, per fuggire pochi giorni dalla società ritrovandosi a correrle incontro in una samarcanda interstellare. Non riuscivo a venirne a capo quindi decisi di rimandare il problema, in fondo solo quello che avevo visto nelle ultime ore valeva tutta la fatica precedente. Senza contare che avevo tutti i miei amici accanto e, lunapark o meno, ogni attimo che passava sentivo qualcosa in noi crescere sempre più, qualcosa più forte del titanio, qualcosa che trascendeva i normali rapporti umani. Sapevo che parlarne sarebbe stato superfluo, bastava uno sguardo per capire che anche loro provavano le stesse cose. Invisibili sinapsi univano le nostre coscienze, eravamo in armonia e tutto era appena cominciato. Il sole aveva dato inizio al mutamento e cosa sarebbe successo quando si sarebbe scontrato col suo diretto antagonista? Cosa sarebbe successo quando Huitzilopochtli, il Dio azteco del cielo azzurro, del giorno e del sole, avrebbe ceduto il posto a Tezcatlipoco, il Dio della notte? O meglio: cosa sarebbe successo quando questi, per un istante, si fossero trovati faccia a faccia al crepuscolo, in quello che gli sciamani chiamavano la frattura dei mondi? Quel momento del giorno in cui tutto è possibile. Il satori supremo da cui, a volte, non esiste ritorno. Proprio non riuscivo a pensarci.
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